La lettera del presidente di FdI al direttore del quotidiano
Spiace che il Foglio concorra alla vulgata secondo cui Orbán porrebbe sotto ricatto l’intera Ue, quando la pandemia esige unità di intenti e immediata disponibilità di risorse; e con lui chi ne condivide le posizioni, quindi non soltanto Polonia e Slovenia, ma pure quei gruppi politici, fra cui quello che ho l’onore di rappresentare: abituata a vedere Fratelli d’Italia marchiato di antieuropeismo, è però la prima volta che sono accusata di essere anti italiana.
Lasciando le etichette, andiamo alla sostanza: secondo il Foglio, l’opposizione al pacchetto di bilancio Ue fondata sul rifiuto delle condizionalità relative allo stato di diritto è in realtà opposizione a “un meccanismo a garanzia dei princìpi e degli interessi dei cittadini europei” – così avete scritto ieri -, e in particolare opposizione all’indipendenza della magistratura e al contrasto degli abusi di potere e delle violazioni di legge. Riprendiamo i trattati e vedremo che non è così.
L’iniziativa di veto di Ungheria e Polonia è una reazione a un accordo, che si vorrebbe imporre, in virtù del quale: a) per il Consiglio europeo bilancio e risorse devono essere concordate all’unanimità, mentre sullo stato di diritto è sufficiente la maggioranza dei due terzi, b) i criteri dello stato di diritto vengono legati alle decisioni sul bilancio. Questo vuol dire rifiutare passi in avanti comuni sullo stato di diritto? Significa intanto non confondere piani con dinamiche e regole differenti. Secondo il trattato di Amsterdam del 1997, e le modifiche a esso apportate da Lisbona nel 2007, l’ipotetica violazione da parte di uno stato Ue dei valori dello stato di diritto prevede un complesso sistema di accertamento, che si articola in una fase preventiva, che può essere attivata da un terzo degli stati membri o dalla Commissione (come è nel caso della Polonia) o dal Parlamento europeo (come nel caso dell’Ungheria).
A seguito dell’iniziativa, ai sensi dell’art. 7, paragrafo 1 TUE, che avvia la procedura e che prende le forme di una proposta motivata di decisione del Consiglio, quest’ultimo può accogliere la proposta, dopo aver ascoltato lo stato membro e dopo avergli rivolto, eventualmente, delle raccomandazioni. E qualora tale stato non modifichi la legislazione nazionale, che può avere – come è in questa vicenda – pure rango costituzionale, il “rischio” si trasforma in una violazione “grave e persistente”. Tutto ciò oggi viene saltato a piè pari: si punta all’accettazione delle condizionalità poste, pena il blocco del bilancio, e soprattutto degli aiuti anti Covid.
“Indipendenza della magistratura”? Sotto questa e altre voci si vorrebbe imporre nei fatti ai paesi riottosi quello straripamento della giurisdizione rispetto a governo e Parlamento che la Polonia sta cercando di evitare, con soluzioni che meritano discussione ma non demonizzazione: non credo di essere anti italiana nel sostenere che proprio l’Italia ha poco da insegnare sul punto, visto che troppo spesso al suo interno risorse europee destinate a grandi opere sono andate perdute grazie a iniziative giudiziarie poi risolte nel nulla, che – per fare un esempio fra i tanti – il piano di contrasto alla diffusione della Xylella, elaborato dall’Ue insieme col governo italiano nel 2013 è stato bloccato da una indagine finita con l’archiviazione, con un miliardo di euro di danni stimati grazie al mix batterio-pm, e che più di recente mentre propri ministri provavano a frenare la migrazione irregolare propri magistrati si accordavano sul sabotaggio di quest’azione di governo.
Fra gli interessi dei cittadini europei c’è quello che le decisioni sul loro presente e sul loro futuro siano assunte dalle istituzioni democratiche che hanno votato, non da magistrati che teorizzano e praticano la supplenza, che inventano e non applicano la norma per il caso concreto: indipendenza per la magistratura non vuol dire prevaricazione sulle altre istituzioni, bensì non avere condizionamenti. La partita, soprattutto in Polonia ma pure in Ungheria, si gioca su questo, e non può essere sospesa da un fischio proveniente da Bruxelles.
Non si è riflettuto a sufficienza sul fatto che, avendo i nostri amici di Budapest, di Varsavia e di Lubiana assaporato qualche decennio di delizie di stato totalitario, ogni qual volta vedono all’orizzonte qualcosa che limiti la democrazia desiderano che al totem del socialismo reale non si sostituisca quello di una non meglio definita “legalità”, tanto più se oggi la si intende imporre con la minaccia di non aprire la borsa. Nella mia simpatia per questa resistenza, in virtù di una storia politica che criticava il comunismo quando troppi lo osannavano, vi è pure questa comune sensibilità. Che è profondamente europea, e quindi italiana.