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“Visto che molti non lo fanno – dichiara Vanni Caragnano, Referente per Taranto dell’Area Tutela Vittime della Violenza di FdI-AN – è arrivato il momento di ricordare che la realizzazione degli impianti ILVA negli anni ’60 inseguiva una “rivoluzione industriale” tutta all’italiana con intere famiglie di contadini che si vedevano espropriati dei floridi terreni coltivati da decenni o dedicati alla pastorizia in cambio di un posto di lavoro stabile per i propri figli in “fabbrica” ed un futuro ed un avvenire “migliore”.
Decisione che consegnò all’acciaio ed alle patologie legate alla sua produzione una terra ricchissima di vegetazione e contraddistinta da coltivazioni uniche nel Mezzogiorno, da una cultura del mare esemplare e da una spiccata dedizione alla pesca, con una meravigliosa prospettiva di crescita turistica. Con i giusti sostegni economici e con amministrazioni più dedite allo sviluppo del territorio che allo sviluppo industriale, si sarebbe potuto raggiungere un sicuro sviluppo economico in piena armonia con il territorio. Ma bisognava produrre, l’Italia doveva dimostrare, sulle spalle di Taranto e della Puglia, che aveva l’industria pesante e poteva rientrare tra le grandi potenze, ignorando il diritto alla vita e all’integrità psico-fisica per non avere prevenuto gli effetti dell’inquinamento prodotto dagli altoforni”.
“Piango per l’occasione persa – aggiunge Cinzia Pellegrino, responsabile Nazionale del Settore Vittime dello Stato – per quella che sarebbe dovuta essere la più grande azienda del siderurgico in Europa e invece si è trasformata in una spada di Damocle sulla salute dei cittadini e la vivibilità del territorio. Avidità e spreco di risorse hanno reso Tamburi quasi un deserto inaridito dalla tossicità delle polveri di ferro; disattenzione e un premeditato ignorare le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro hanno assegnato all’ILVA un triste primato per morti bianche. Da tempo testimonianze di molti operai confermavano il rilascio non controllato di liquami e amianto nel sottosuolo, che – insieme all’esposizione continua delle polveri – ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi e che si traducono malattie e morte. Adesso anche la Corte di Strasburgo ce ne chiede conto. Una vergogna innanzi all’Europa che ci saremmo voluti risparmiare, come anche e soprattutto il dolore, le malattie e la sofferenza causata da una gestione scanzonata dell’impatto ambientale che perdura da oltre un secolo. E’ necessario, pertanto, andare oltre la dicotomia lavoro-salute, lavorando su una seria riconversione dello stabilimento, che consenta l’adeguata operazione di bonifica più volte invocata ed anche indicata nei decreti e preservi un adeguato numero di posti di lavoro, in maniera da non consentire alla città un disastro economico irreparabile. Infine – conclude la Pellegrino – non vorrei essere nei panni di Emiliano, che si trova a difendersi dall’operato del suo predecessore – il quale aveva fatto del risanamento dell’impianto un cavallo di campagna elettorale – e del suo stesso partito, da sempre finanziato dai Riva e artefice di numerosi decreti Salva Ilva”. Queste le dichiarazioni dei due Referenti in merito alla decisione della Corte Europea dei diritti umani di mettere sotto processo l’Italia per non aver protetto la vita e la salute di 182 cittadini di Taranto dalle emissioni inquinanti e l’audit del processo “Ambiente svenduto” che vede protagonisti molti ex amministratori locali.

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