“La priorità oggi è la necessaria unione delle forze contro il terrorismo. Senza di questa è impossibile risolvere altri problemi urgenti, come quello dei migranti”. Vladimir Putin sintetizza così la posizione russa in Siria, il suo sostegno a Bashar el Assad, l’urgenza di muovere guerra all’Isis e la soluzione al problema dell’esodo biblico che sta investendo l’Europa. Sono d’accordo con lui. Per spiegare la posizione degli Stati Uniti, invece, non possono bastare due righe, nemmeno a un grande comunicatore come Barack Obama, perché la strategia americana in medio oriente è molto più complessa. Talmente contorta, in verità, che il presidente americano sta trovando grandi difficoltà a spiegarla perfino in Patria. C’è la ferma volontà di fare fuori Assad: è un crudele dittatore, è amico di Mosca (alla quale concede l’utilizzo della base navale di Tartus), è sciita alawita e filo iraniano e pertanto inviso agli Stati sunniti, Turchia e Arabia Saudita in testa, storici alleati statunitensi. Il problema è che nel gioco del “nemico del mio nemico”, gli Stati Uniti rischiano di ritrovarsi per amici i tagliagole dell’Isis. Perché il tentativo di sostituire Assad con il vento fresco delle primavere arabe è fallito miseramente e oggi, sul campo, il califfato è l’unico vero antagonista del regime siriano. Così, mentre la Casa Bianca cerca il bandolo della matassa, la coalizione internazionale contro l’Isis si limita a timidi e inefficaci bombardamenti, rivolti per lo più a sostenere gli alleati curdi o a fermare l’avanzata jihadista verso Baghdad. Nel frattempo continuano ad arrivare allo Stato islamico soldi, armi, uomini e mezzi, in modo più o meno clandestino, senza che nessuno cerchi il modo per impedirlo. Mentre a Washington tentano di trovare un piano B, l’Isis conquista terreno in Siria e Iraq, è arrivato in Egitto e controlla diverse città della Libia ad appena “400 chilometri da noi”, come ha dovuto ricordare Papa Francesco. E nei territori conquistati, questi fanatici islamici sterminano le minoranze etniche e religiose, soprattutto cristiane, distruggono templi e monumenti, riducono in schiavitù le donne e i bambini. E sono la causa della fuga di milioni di disperati che premono ai confini europei e rischiano di stravolgere le nostre società. E allora, la priorità per gli europei è una sola: spazzare via l’Isis dalla faccia della terra. In Iraq, in Siria, in Libia, in Nigeria, ovunque questi assassini hanno alzato le loro bandiere. Con tutta la forza che sarà necessaria. Senza perdere altro tempo, senza tentennamenti, senza calcoli e senza sotterfugi. Anche al fianco dei russi, anche sostenendo l’esercito siriano di Assad. Possibilmente insieme ai nostri alleati americani. In ogni caso a difesa del nostro interesse nazionale. Il nostro presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dichiarato che l’Italia non parteciperà agli eventuali attacchi aerei contro il califfato m Siria che Francia e Regno Unito stanno attualmente valutando. Le ha definite inutili “iniziative spot” e potrebbe anche non avere tutti i torti. Il medio oriente e il nord Africa non si pacificano con qualche incursione aerea. È necessaria una azione militare a vasto raggio contro l’Isis e serve una strategia comune con le altre nazioni che stanno combattendo la nostra stessa guerra. Sono argomentazioni che l’Italia può portare in seno all’Unione europea e in seno alle Nazioni Unite, anche grazie al peso che dovrebbe avere la lady Pese Federica Mogherini (la cui nomina ha comportato, per l’Italia, dover sostenere le folli sanzioni contro la Russia). Ciò che l’Italia non può permettersi, invece, è tirarsi fuori dalla partita, nascondere la testa sotto la sabbia invocando la “necessità di una soluzione politica” e sperare che altri facciano tutto il lavoro al posto nostro.
di Giorgia Meloni
18 settembre 2015, pubblicato da “Il Foglio”.