La Storia dell’università italiana è antichissima e prestigiosa.
In Italia, a Salerno, nell’ XI secolo nacque la prima università del mondo e rimase per due secoli il più illustre centro di scienza medica. Seguirono Bologna, Padova, Napoli, Roma, Perugia, Pisa, Piacenza, Arezzo, Macerata, Pavia, Siena, Firenze e le altre.
Negli altri Paesi le prime università videro la luce successivamente: a Montpellier nel XII secolo, in Inghilterra Oxford e Cambridge intorno al 1200, nei paesi germanici nel XIV secolo.
L’università italiana è ancora oggi tra le migliori del mondo eppure soffre di non pochi paradossi.
Nonostante la sua eccellenza non è attrattiva per gli studenti stranieri.
Questa contraddizione trova la sua ragione nella prevalenza dell’aspetto teorico sull’applicazione pratica che caratterizza il nostro insegnamento.
Gli studenti stranieri che provengono da scuole che privilegiano l’aspetto pratico sono disorientati dalle nostre lezioni che appaiono loro astratte e molto complesse.
In realtà è proprio tale complessità che assicura ai nostri studenti una preparazione che non ha pari negli altri Paesi e la possibilità di apprendere velocemente il dato pratico.
Il percorso inverso è invece molto più difficile.
Il 12 aprile si è tenuto a Roma alla Camera dei Deputati, nella sede di Palazzo Valdina, un convegno sull’università italiana dal titolo “Merito e innovazione” organizzato dal Dipartimento Scuola e Università di Fratelli d’Italia che ha messo in luce alcune carenze dell’università italiana e le possibili soluzioni per colmarle.
Presenti gli on.li Paola Frassinetti e Ellas Bucalo responsabili del Dipartimento e tre docenti universitari: il Prof. Massimo Miscusi, vice responsabile del Dipartimento, il Prof. Alberto Padula e il Prof. Fabio De Giorgio componenti del Dipartimento i quali hanno sottolineato la mancanza di un coordinamento centrale della ricerca da parte del Ministero.
Spesso infatti i ricercatori non sanno di cosa si stanno occupando i loro colleghi con evidente dispersione di energie e obiettivi.
Particolarmente utile a questo proposito sarebbe l’istituzione di un’anagrafe della ricerca per collegare i ricercatori e i loro progetti.
A ciò si dovrebbe accompagnare la semplificazione burocratica. Attualmente infatti i ricercatori sono afflitti da procedure complesse per la rendicontazione didattica e altri adempimenti che vengono loro richiesti e se hanno la necessità di fare acquisti di strumenti necessari al lavoro che stanno svolgendo si imbattono in una giungla di cavilli che rendono l’università qualcosa di simile a un ufficio postale più che a un laboratorio di sapere.
I relatori presenti al convegno hanno messo in luce anche la necessità di aprire l’università all’esterno creando collegamenti tra la ricerca e il mondo del lavoro. In Italia infatti si verifica un altro paradosso: i nostri ricercatori sono considerati dalle aziende troppo qualificati eppure vengono sottopagati rispetto ai loro colleghi stranieri.
È stata esaminata anche la proposta presentata in Commissione Cultura dagli on.li Meloni e Rampelli per eliminare lo sbarramento del numero chiuso che attualmente regola l’ingresso alla facoltà di Medicina e che decide del futuro di uno studente sulla base di poche domande di un test.
Gli ingressi dovrebbero essere infatti regolati dal merito e non dalla casualità.
Una soluzione potrebbe essere l’iscrizione libera al primo anno con un esame finale per valutare gli studenti meritevoli di proseguire il corso di studi, con la possibilità di far svolgere il primo anno nelle scuole superiori ai numerosi studenti iscritti che non troverebbero spazi adeguati all’interno degli atenei.
Ciò avrebbe anche il vantaggio di creare un collegamento stretto tra scuola superiore e universìtà.
All’idea dell’università come turris eburnea si è contrapposto un concetto di università come laboratorio di formazione e di ricerca dinamico e in contatto continuo con il mondo produttivo che anziché mettere in fuga i nostri ricercatori li impieghi per progredire sulla scia dell’eccellenza della loro preparazione.
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