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Si va a Fiuggi, un po’ per caso, un po’ per non morir. Ci si va fischiettando nel disordine, alla vecchia maniera romantica di chi ha grandi obiettivi e parte per la guerra, ma si muove con lo spirito leggero e un po’ guascone di chi non ne ha nemmeno uno piccino e deve fronteggiare i ragazzi della via Paal. C’è chi è convinto della scelta e vuole proprio quella roba lì, stessa scenografia, stesso pathos, stesso caos del 1994, stesse lacrime.

A parteciparvi del resto, al di là di differenze anagrafiche e provenienza, saranno gli appartenenti allo stesso blocco sociale di allora, custodi indefessi di quei vecchi sogni naufragati. C’è chi ci va senza simmetrie e nostalgie, consapevole che Fiuggi è il centro congressuale più prossimo a Roma, costa un decimo, sì, ha una tensostruttura simile a quella di vent’anni fa, ma che c’entra, c’è acqua diuretica, la vista sull’Appennino, un bel teatro per incontri conviviali, ci si arriva in autostrada e ha un clima fresco e sano. C’è chi è convinto di tornare lì a fare i conti con An, perché “lì è stata tradita la destra italiana, quella missina post bellica, dalla schiena dritta e indisponibile al compromesso, la destra estrema-morte-al-sistema. E adesso gliela facciamo vedere noi…”. 

C’è chi neanche ci aveva pensato alla ‘coincidenza’, perché è come dire che si va a Roma, in Piazza San Giovanni perché è la piazza di Berlinguer, ma molti non sanno più nemmeno chi fosse Berlinguer, il tempo trascorso è lì a scandire le immagini dei concerti rock, della festa del primo maggio e dei sindacati, di quella della lumaca e della Befana, dei comizi di Berlusconi, Fini e Casini, dei cortei della Casa delle Libertà. E’ una gran bella piazza e ci vogliono andare tutti.
L’unica cosa certa è che non andiamo a rifare Alleanza nazionale, no, così come Alleanza nazionale non andò a Fiuggi per rifare il Pnf. Non ci andiamo per dire cose già dette da Giulio Cesare e Cesco Baghino, ma perché sentiamo di avere una responsabilità sulle spalle, dopo la scomparsa prematura e imprevedibile del ‘duce’ del secondo ventennio, Gianfranco Fini, appunto. 
Trovarsi all’improvviso con un leader, già segretario del Movimento sociale italiano ed erede politico di Giorgio Almirante, sedotto da alcuni luoghi comuni dell’intellighentia rossa, constatare la totale dispersione di una comunità umana e politica che aveva resistito perfino alle Brigate Rosse, è stato davvero uno choc. Come rientrare a casa la sera e scoprire che non hai più una famiglia. Puff, distrutta. 
Abbiamo sentito il dovere di provare a ricostruirla, caro Gianfranco, ce la stiamo mettendo tutta, forse non siamo alla tua ‘altezza’ e il confronto con Fiuggi ’94 sarà impietoso, certo. Non abbiamo le spalle ben coperte che ti accompagnarono in quella trasformazione di vent’anni fa, ma sta bene così. Ce le copriremo da soli. Del resto sapevamo che si trattava davvero di ‘lucida follia’: con i calzoni strappati e la chitarra a tracolla abbiamo attraversato la penisola per ridare fiducia, cercato il minimo comun denominatore, tracciato una rotta, parlato con umanità. 
Non basta un simbolo bonsai, vero, servono idee. Quelle non ci sono mai mancate. Piuttosto è mancato chi credesse in quelle idee innovative e fu costretto a rincorrerle nel mutato contesto di tangentopoli, fino a far apparire Berlusconi come il nostro sdoganatore. Quasi fossimo un Movimento di impresentabili straccioni. A Fiuggi si ridà appuntamento quella ‘generazione invisibile’ che anticipò la svolta mettendosi in gioco, mentre il suo leader la contrastava distribuendo patenti di statismo. Con la stessa faciloneria con cui le avrebbe tolte di lì a qualche giorno.
Già, problema di idee, non di simboli.
Quelle messe in campo negli ultimi anni, caro Gianfranco, a giudicare dai risultati non hanno funzionato. Ecco, sappiamo dove non andare. E’ già qualcosa rispetto al passato. 
Senza rancore e senza niente.

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